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Renato Zero apre il suo cuore e si racconta

di Sonia D'Agostino

Oggi siamo tutti sorcini, a Io le donne non le capisco abbiamo avuto l’onore di ospitare il grande Renato Zero. Non ha bisogno di tante presentazioni, lui è uno dei cantanti di maggior successo italiani con più di 50 anni di carriera, 500 canzoni e oltre 45 milioni di dischi venduti. Il suo ultimo capolavoro si chiama Zero il folle.  Renato Zero è in tournée nei palazzetti di tutt’Italia. “Con questa tournée sto riassaporando che questa memoria, la mia, non ha rughe, si è mantenuta vivace e austera. Questo va a vantaggio del mio rapporto con il pubblico che non è un legame di comodo ma è un rapporto dove ognuno ha bisogno dell’altro. Ho la sensazione che siano dei parenti perché la mia famiglia mi ha sempre dato questa opportunità di dare valore a questo rapporto. Quando mi alzo la mattina e sono invaso da sorrisi puri e sinceri, beh questi sostenitori è come se fossero di famiglia. Se fai il mestiere con attenzione, oculatezza e rispetto di te stesso, chi viene preso in giro è l’autore del bluff, non è mai il malcapitato. Il pubblico si accorge subito se sei nella tua veridicità o se invece stai già pensando al conto corrente. Ho un gran rispetto anche del tempo che passa, considerando che mi ha graziato visto che a 69 anni ho ancora una bella resistenza. L’emozione dell’apertura del sipario è una sensazione che provo tutte le sere e questa è la certezza che sono ancora in grado di stare sul palco proprio perché provo queste sensazioni e le trasferisco sul pubblico che ne è appagato”. 

È proprio vero che i tuoi fan sono parte di una famiglia?

“Avendo mantenuto questa frequentazione con la strada, spesso mi faccio delle belle camminate e incontro dal tassista al vigile urbano, alla signora anziana ho sempre una sensazione di appartenenza e di non essere mai solo. Di essere riconosciuto e di riconoscere. Attraverso i bambini e gli anziani ho la sensazione di essermi meritato questa fiducia, è il termometro se sto facendo bene l’uomo o se c’è qualcosa in te che non risponde a certi requisiti. Il pubblico è il mondo, non è il possessore del biglietto d’ingresso, è l’abbraccio che tu ottieni dopo una serie di impatti con la società italiana che è quella che maggiormente ti mette sotto i raggi x. Questo è un vantaggio che se gli italiani se lo riconoscessero vivremmo in un’altra dimensione oggi, invece c’è questa svalutazione che non ci consente di essere più padroni della nostra scelta, della nostra idea, del nostro vivere, abbiamo sempre la sensazione che per essere sicuri dobbiamo mettere una crocetta”. 

Il nuovo album Zero il folle è in continuità con il tuo saper raccontare il mondo. 

“Ho viaggiato sempre con questo passaporto, anche nelle mie origini di questo lavoro c’è stato sempre questo grande attaccamento alla melodia, a questi spazi che la musica ti offre. Essendo stato contaminato poi da Tenco, Bindi, Paoli e tutti gli altri, sei portatore di continuità che è dovuta anche al nostro Paese. Queste radici, anche se siamo in grado di ospitare altri tipi di musica, facciamo attenzione che un brano non viva solo le 24 ore. Nasco ruspante, se ascolti i brani di “No mamma no” c’è il graffio, la ribellione, e il rock sono stato precursore e questo mi ha offerto l’opportunità di entrare dentro a un meccanismo splendido che è quello di dare alla forza ritmica dei brani, una certa vitalità e lungimiranza. Sono stato molto precursore, ma anche l’amicizia con Armando Trovajoli e con Ennio Morricone mi hanno offerto questa naturale versatilità verso la grande melodia. Raccomanderei ai ragazzi di oggi di non perdere mai di vista la nostra tradizione che non prevede certo la chiusura con la modernità”.

Il brano Zero il folle è molto introspettivo?

“Racconta la mia vita in 4 minuti. Il testo scinde Renato da Zero ma questo era un incontro-scontro inevitabile, abbiamo barattato questa convivenza a fronte del mantenimento della libertà e dell’autonomia. Mi sono tolto dal giro delle multinazionali, mi realizzo gli album come voglio, vengono distribuiti in maniera personalizzata. Vivo un percorso che era già annunciato in Zerolandia, prima che questi signori ci mettessero i sigilli. A Zerolandia organizzavo anche il Natale, era uno spazio dove facevo una prima parte di concerto, a mezzanotte c’era la  messa e successivamente ricominciavo il concerto. Ho sempre avuto la sensazione che Edoardo de Filippo avesse ragione e gli altri che facevano ditta, che mettevano sulla locandina la loro esistenza, il loro talento, la loro autonomia che è stata assassinata dal potere e dal consumismo. Eravamo tutti artigiani, poi improvvisamente qualcuno ha tirato fuori i soldi e si è comprato la nostra indipendenza. 

Quando sei davanti allo specchio pensi a quello che sei riuscito a fare?

“Ci provo ma lo specchio mi risponde che non si vive di soli dischi d’oro, bisogna mantenere sempre alta la quota dell’impegno e anche del lavoro, dell’effettiva operatività. Ho dei vuoti di frequentazione dell’estate, quella vissuta come normalmente ci si immagina. L’estate l’ho messa al pianoforte, con accanto carta e penna. Queste stagioni, senza rimpianti, c’è dentro “Spiagge”, “Cercami” ci sono dentro dei titoli importanti. Uno mi può anche dire “perchè non sei andato a fare il bagno al mare?” Perché ho messo un tassello in più sul mio mosaico che mi ha dato l’opportunità di essere stappato dalle grinfie della solitudine, di sentirmi condiviso quando agli inizi era quasi improbabile che lo specchio mi dicesse quello che mi dice ora. Lo specchio, all’inizio della mia carriera, mi diceva di mollare, di non insistere, di trovarmi un’altra cosa nella vita che ti renda meno zimbello di tutti, meno precario verso me stesso”.

L’impegno è fondamentale al cospetto dell’immagine. 

“C’è un lato del nostro Paese che è molto discutibile: chi nasce quadro non muore tondo. Questo mi ha sempre ferito perché sono saltato dalle tavole del teatro tradizionale a quelle delle sale prove. Mi sono mosso su diversi fronti per avere una  completezza armonica e sinergica delle mie attitudini e possibilità. In questo Paese non ti viene perdonato il fatto che tu possa anche portare il proprio peso specifico verso un’altra tipologia di arte. Per gli italiani siamo in questa cucina con a disposizione degli ingredienti, abbiamo un lievito madre consolidato da anni, improvvisamente, in questa enorme cucina che è l’Italia, arriva qualcuno che ti mette dentro ai tuoi ingredienti qualcosa di non positivo, e questo avviene sistematicamente tutti i giorni, lo fa anche la televisione di andare ad infierire sulla qualità dei tuoi prodotti. Parlo ovviamente vitali, del tuo essere italiano. Questo è un aspetto drammatico, dobbiamo difenderci da queste provocazioni, da queste dottrine definitive di un vivere che deve essere rapportato al consumismo, al mettersi sempre a disposizione di qualcuno che ti offre una via d’uscita, ma il prezzo da pagare è sempre salato. Si riversa anche sulle mie modalità di cucinare perché l’artista è il primo a risentire di un malessere nazionale. Noi cantiamo la felicità, ma il più delle volte a me è capitato si cantare la sofferenza perché è quella che maggiormente viene presa in considerazione. Parliamo anche delle donne che avviene in questo paese. Anche Renato Zero vive di queste contaminazioni brutte. Prometto che sarò ancora più impegnato nell’utilizzare le mie note a favore di un un riscatto che sia positivo. Il mio lavoro è di felicità, arrivare a questa grande fiducia che mi viene attribuita, mi consente maggiormente di adoperarmi perché la qualità delle mie opere sia all’altezza delle aspettative”. 

Viviamo in una società malata. La nostra generazione è quella che ha distrutto tutto? Non ci sono più valori. 

“Ormai c’è l’abitudine che tutti possiamo ottenere il massimo. Le fake news devono essere considerate come l’evenienza di una poca attenzione verso se stessi e verso i figli. La nostra educazione civica è sparita dalle scuole. Lo stipendio di un insegnante e quello di un medico fanno sorridere, sono due avamposti fondamentali della nostra società. Noi affidiamo i figli a qualcuno che si prende la responsabilità totale di portarli verso l’adolescenza e la maturità. Ad un medico che gli muore un paziente sotto i ferri deve avere il coraggio di difendersi in tribunale. Queste sono piccole riflessioni su grandi problemi. L’unica risposta è che vogliamo degli esempi veri nei governanti. In loro c’è la volontà di voler difendere la salute pubblica, il benessere degli italiani, allora ci vuole gente competente nella sanità, nell’istruzione e tutti i ministeri”.

Hai un rimpianto professionale?

“Non ho rimpianti, ho setacciato tutte le problematiche del mondo, ho cantato la guerra, la pace, l’amore. Il rimpianto l’ho cantato poco perché non ho stima verso questo sentimento perdente, che non dovrebbe far parte del vocabolario. Nella mia vita ho ballato con Jimi Hendrix, ho portato in Italia il primo musical, ho fatto anche il doppiatore. Volere è ancora potere”. 

Dal centro di Roma sei stato costretto ad andare a vivere nella periferia. Ha influito nella tua vita?

“L’infanzia è la fotografia che tu esibisci anche a 80 anni. È lì che si imprime il colore, la potenzialità di immagini, sensazioni e luoghi e anche di vicinanze. Il silenzio della periferia, il poco parlare nella periferia perché c’era imbarazzo dove la periferia nascondeva molto le persone, i sentimenti. La periferia era omertosa e spesso produceva tanta solitudine. Io ricordo la solitudine del centro di Roma perché lì i bambini non c’erano, sono cresciuto con gli anziani. 

Nella periferia ho trovato questi amici cosiddetti coatti che all’inizio mi hanno circoscritto perché ero un bersaglio facile. Ma io ho cercato sempre il dialogo e questo parlare mi ha fatto risultare simpatico. Alla fine gli amici della borgata erano diventati le mie guardie del corpo”. 

Che persona era tuo padre? 

“Se non ti mostri per quello che sei, nel bene o nel male, fai confusione e la gente travisa quello che vuoi essere e come lo vuoi dire. All’inizio non uscivo di casa con piume e lustrini ma infilavo tutto dentro un sacchetto e nei pressi del Piper mi cambiavo. Alla fine fu mio padre a spingermi a mostrarmi per quello che ero. Mio padre, figlio di contadini e di pastori, risentiva di quella quiete e della pace dell’anima che è presidio delle persone semplici. Nella vittoria della cultura c’è la sconfitta della purezza. Papà aveva la ragionevolezza che si era fusa all’istinto e quindi mi ha lasciato libero. La libertà di movimento è la miglior educazione che puoi dare un figlio. Parlate di più con i vostri figli. I ragazzi cercano sempre un dialogo, a scuola c’è questa disparita dove ognuno ha ragione sui propri retaggi, sul colore, a scuola ognuno difende la propria identità ma nessuno la confronta”. 

La famiglia è fondamentale per dare delle certezze a un ragazzo?

“Oggi se un figlio ha una cera tendenza o appare con certe caratteristiche, si pensa,  dal fonte dei genitori o dell’insegnante, che tocchi la droga, che sia gay, che abbia tendenze criminose, ci si sofferma a questo identikit sommario e che viene suggerito da una società che invece di comprendere queste deviazioni, le condanna senza andare ad approfondire la natura e la verità di questi cambiamenti. Li si condanna a priori spesso falsando nel giudizio l’indole del soggetto. La casa è il luogo deputato di formazione dei ragazzi. In via di Ripetta  eravamo in 12 in una casa. Eravamo una bella caserma ma questa fortezza mi garantiva una copertura così totale che quando uscivo non mi fermava nessuno.  Questa consistenza sono anticorpi, è una palestra ipotetica. Se tu hai una famiglia che ti sostiene, che rafforza le convinzioni che sei una lavagna bianca che vuole essere scritta, il padre e la madre sono i primi a scrivere sulla lavagna ma gli ultimi a giudicarla”. 

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