Home Lei e luiCoppia e Famiglia Cari papà, regalatevi quantità: i nostri figli vogliono tempo ed attenzioni

Cari papà, regalatevi quantità: i nostri figli vogliono tempo ed attenzioni

di Pier Paolo Mocci

Io le donne non le capisco si occupa soprattutto di relazioni umane, di rapporti personali che caratterizzano la vita di ognuno di noi. Questa volta lo facciamo attraverso la penna di Pier Paolo Mocci che, in occasione della Festa del papà, ci regala una sua personale riflessione sull’essere padri oggi.

Ogni mamma è straordinariamente “uguale” ad un’altra mamma. Ha portato una nuova vita in grembo, ha tenuto al caldo e protetto un fagiolo diventato pulcino e poi cucciolo. Ne ha sofferto e vissuto la gestazione. Il bimbo, o bimba, dentro quel prezioso sarcofago ha respirato la stessa aria, ascoltato i battiti del cuore, mangiato le stesse vagonate di Nutella in preda a sobbalzi ormonali. Il rapporto tra madre e figlio ha generato pagine di straordinaria narrativa (da Pavese a Pasolini, ma i nomi da citare sarebbero decine), ispirato saggi e volumi di filosofia, mosso le migliori menti della psichiatria, generato film e opere artistiche di ogni tipo. Ogni pagina però diversa, ogni film unico, ma tutto convergente sullo stesso unico, enorme, sconvolgente  e meraviglioso rapporto di immenso e indissolubile amore ancestrale tra i due, madre e figlio.

Ecco. Non si può dire la stessa cosa sul padre, sull’essere padre, sul sentirsi padre, sul fare il padre, sull’avere o non avere un padre, sulla figura del padre, sulla sua presenza e assenza, e sul modo di fare il padre. Ogni caso è a sé e personale ed io qui provo a raccontare la mia esperienza, confidando di potermi confrontare con voi: colleghi padri, amiche madri, e soprattutto, figlie e figli, non abbiate riserve.
Stavolta non garantisco di saper affrontare la cosa in modo leggero, anzi sarà tutto molto personalizzato e “vero”.

Festa del Papà
Festa del papà

Esattamente dal giorno della Festa del Papà, festeggio il mio essere padre e più in generale mi riapproprio di una parola a me fin troppo ignota. Esattamente il 18 marzo di 11 anni fa, alle 12.30 di un martedì assolato di primavera, diventai padre per la prima volta. Il neonato, oggi ragazzino grosso quasi quanto me per via di uno straordinario sport che è la pallanuoto, si chiama Matteo e, appunto, il 18 marzo 2008 venne alla luce, facendomi il regalo più grande (dose rincarata dal “futuro” fratello Valerio che sarebbe nato 4 anni e mezzo dopo).

Da 11 anni e un giorno sono un padre. Un padre che ha scelto di esserlo con grande consapevolezza. Pertanto, il 19 marzo è una “festa” che rivendico e che sento particolarmente mia per il suo valore simbolico. Anche se ha poco a che vedere con date storiche ben più importanti, per me l’essere padre e quindi il 19 marzo vale quanto il primo maggio, il 25 aprile, perfino il 27 gennaio (dove di padri ne perirono milioni) o l’8 settembre, dove tanti altri ne vennero salvati. Il 19 marzo vale quanto una forte ricorrenza laica e profana ma degna di essere celebrata.

Non farò mistero dei motivi personali per cui io mi senta legato a questo tema: dai miei 12-13 anni fino ai miei 30-32, mio padre è stato totalmente assente dalla mia vita. Esattamente 20 anni. Anni lunghissimi che si sono fatti sentire oltremodo specie nell’età dell’adolescenza e della prima giovinezza. Ma ora che ci penso anche dopo.

Le ragioni? Non le ho mai ricercate fino in fondo. A volte, non sapere e non approfondire è un salvagente per evitare di farsi troppo male, sfuggendo a verità – o presunte tali – che non vorresti conoscere. Vi dirò la parte bella: e cioè che 7 o 8 anni fa sono passato da lui come niente fosse, presentandogli suo nipote nato da pochissimo. Tra qualche lacrima di commozione, Piero ed io abbiamo deciso di ripartire da lì, mettendo una pietra sopra al passato, abbandonando per sempre quelle ombre che non avrebbero mai cancellato quella lontananza e quell’assenza. Così, quasi come in un film, Matteo ed io abbiamo pronunciato praticamente insieme le stesse parole, Papà. Lui emettendo i primi vagiti, io riappropriandomi di una parola che mi era stata negata per troppo tempo.

Festa del papà

Vi racconto questo, in modo anche disordinato e con grandi salti temporali, e mi perdonerete, affinché non lasciate che i vostri padri, che voi padri o che il vostro ex marito o compagno possa uscire in modo così drastico dalla vita di un figlio. Anche se non gli mancherà amore – ne sono certo, così è stato anche per me – patirà l’assenza di quella figura paterna che ricercherà per tutta la vita, anche maldestramente, in tutto ciò con cui avrà a che fare. C’è bisogno di un padre sempre, un figlio ne ha bisogno anche se pensa che sia il padre sbagliato.  

Come forse potrete immaginare – magari leggendo le cose scritte su questo blog – sono uno di quei papà un po’ cazzoni e burloni, uno di quelli che fa gli scherzi a tavola mentre si dovrebbe stare tutti composti e dare il buon esempio. Io sono quello che mentre i bimbi si devono lavare i denti e si devono mettere il pigiama, continua a giocare come un disadattato, e mentre dovrebbero addormentarsi sono quello che continua a raccontare storie assurde e strampalate che fanno ridere, immerse in fantastici boschi popolati da personaggi incredibili, facendo risvegliare i bimbi anziché farli addormentare. Sono però uno di quei padri che non riesce a dare quanto vorrebbe ai propri figli: l’amore per carità è quello che conta, ma questi anni di lavoro precario ed incerto non mi hanno fatto bene e non hanno fatto bene a tutti i papà che si ritrovano nella mia situazione, ovvero moltissimi “liberi professionisti”, di fatto dei precari, tali e quali ai disoccupati o ai poco occupati o – peggio ancora – occupati male. Perché il mondo del lavoro è impazzito in questi anni e molti di quelli che stavano facendo un percorso si sono ritrovati con un cerino in mano. E se la paternità arriva in un momento “sbagliato” potrebbe complicare le cose. Per fortuna, il più delle volte, le cose le sistema, ma non sempre. Perché se sei un padre ancora alla ricerca di te stesso, di una strada professionale in divenire, non sempre riesci ad essere “lucido” con tuo figlio e dargli il meglio. Il meglio sì, glielo darai affettivamente, ma di certo viaggi, giochi e passatempi spesso saranno a ranghi ridotti.

Un padre, un uomo, se non si sente realizzato nel lavoro, non riesce ad essere pienamente una persona felice, non riesce a dare molto – a volte quasi nulla – in famiglia, eccetto il minimo indispensabile e a sua discrezione. Sembra una posizione “di comodo” ma, vi posso assicurare, non è così. Spesso ricerchiamo ancora oggi, a 40 anni, una stabilità economica che possa renderci delle persone serene e dare a moglie e figli il tempo che si meritano.

Perché, diciamocelo francamente, questa storia che è la qualità che conta è una grande scusa, una boiata pazzesca tramandata nel tempo per stare un po’ tutti con le coscienze a posto. In generale è così: qualità batte quantità senza se e senza ma. Ma nei rapporti umani sicuro che non conti quanto tempo trascorso insieme? Tra persone, specie tra un padre e un figlio, basta mezz’ora fatta bene o, meglio, mezza giornata? Dalla mia esperienza dico che conta il tempo, conta la quantità. E nella quantità poi c’è anche la qualità, non potrebbe essere altrimenti. Perché se hai tre ore per giocare con tuo figlio sono tre ore di qualità. Se invece hai solo 20 minuti, a volte quei 20 minuti rischiano di essere pure brutti e sciatti, perché stai in ansia che quel momento finirà a breve, col pensiero triste a dover di nuovo andar via.

Mi rivolgo alla mia generazione, quella dei 40enni che – probabilmente – sono stati chiamati a dei sacrifici che mai si sarebbero sognati: non ci arricchiremo mai, non ci realizzeremo mai del tutto, siamo stati vittime di un crac epocale, di un “epic fail” che ci è caduto addosso in maniera verticale, totalizzante, rischiando di ridurci psicologicamente a brandelli. Siamo stati forti a resistere, abbiamo mantenuto una grandissima dignità. Molti di noi ce l’hanno anche fatta, aiutati da padri o padrini che li hanno salvati dall’oblio (e non ci trovo niente di male, in questa Italia, a trovarsi una spintarella per andare avanti, perché troppo spesso essere bravi non basta).
Però guardo agli altri, alla maggior parte, a quelli che avevano – come me – tutte le carte in regola per farcela ma che sono stati condannati all’isolamento. Esperti, formati, laureati, flessibili, culturalmente preparati, ma lasciati incredibilmente fuori dai giochi. Giochi veri, parlo dei tavoli “pesanti”, quelli dove vengono decise le regole del Gioco e dove potresti anche arrivare a dare le carte un giorno.

Cosa c’entra tutto questo con la festa del Papà? C’entra eccome. Provate a collegare le cose.

Padri frustrati e delusi per non essere riusciti a diventare ciò che volevano, tagliati fuori da una società che sembra non aver bisogno di loro, nel pieno delle loro energie e della loro potenza fisica ed intellettuale. Figli di un Dio minore e di un’altra epoca, liberi professionisti di età compresa tra i 36 e i 45 anni che avrebbero meritato maggiori gratificazioni economiche, riversandole poi inevitabilmente sui figli e sulla famiglia. I soldi non fanno la felicità, ma concedersi il lusso di una vacanza all-inclusive in America o in qualsiasi altro posto del mondo è un miraggio per molti ancora lontano. Se solo capissero quanto siamo bravi. Ma forse lo sanno, ed è per questo che ci mettono da parte. Dovremmo indire uno sciopero, noi nati a cavallo degli anni 80, splendidi quarantenni. Ci troveremmo di fronte ad ultra 50enni e 60enni che non riuscirebbero a decifrare i codici del nuovo mondo, e tanti 20enni smanettoni che – lontano da noi – farebbero solo danni.

Ecco che, oggi più che mai, essere Padre ha un forte connotato sociologico. È una occasione di riscatto personale. Un po’ come – nei secoli dei secoli – è spesso capitato alle mamme dover dare il meglio, costrette a dover essere solo mamme. Dobbiamo allora fare di necessità virtù: accettare il nostro essere precari, autonomi, flessibili, liberi da una occupazione fissa cogliendo questa condizione di lavoro subalterno e senza garanzie per stare di più con i nostri figli. Io lo faccio. E devo dire che la cosa mi gratifica moltissimo.  Eccetto le giornate di picco, sono uno che – in media – non lavora più di 3 o 4 ore al giorno, diciamo 6 in media. Il motivo? Alla fine del mese un euro da parte non si riesce comunque a metterlo via. Tanto vale impiegare il tempo per stare con i figli, accompagnandoli al campetto o in piscina, giocarci in villa a pallone o fare i compiti insieme. Il tempo insieme, la quantità, cosa che a me – da figlio  è sempre terribilmente mancata.  
Non è un ripiego, ma un’occasione. Pensate allo straordinario film di Gabriele Muccino “La ricerca della felicità” senza il sogno americano e con maggior realismo: forse il giorno in cui Will Smith viene assunto nella grande azienda per noi non arriverà mai. Nel frattempo però cresciamo i nostri figli, continuando a combattere ma a tempo determinato, calibrando la scala dei valori che spesso in un uomo sono sballati, prima tra tutte la conquista del potere e l’affermazione dell’Io. Facciamocene una ragione e usiamo il tempo libero per stare con i nostri figli piccoli. Eclissiamoci. Facciamo sentire alle aziende, in ogni settore, bisogno della nostra assenza. Con tutto il rispetto, né prepensionati con la pancia piena né nerd smanettoni sono in grado di supplire la nostra assenza. Tre di loro ne fanno uno di noi. La società deve avvertire “generazionalmente” il peso della nostra assenza. Dovremmo essere compatti.  Ci vorrebbe una Greta svedese anche per noi. Ma il problema è che una Greta svedese di 40 anni susciterebbe altri sentimenti e andrebbe tutto in vacca.

L’altro giorno mio figlio piccolo mi ha detto “Sono felice di avere un padre come te”. E quello grande pure, più o meno. Allora ti rendi conto che è tutto diverso da come credi, che è tutto più facile, relativo, che il tempo da passare insieme è qui ed ora con loro. Che la ricerca della felicità sta tutta qui e non in una consulenza che tarda ad arrivare. La consulenza arriverà, i contratti pure. Ed intanto si passa il tempo insieme e si cresce anche un po’, anche noi che siamo già grandi.

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