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Il peggior modo di dirsi addio è non dirselo in tempo

di Gian Ettore Gassani

Quando lasciarsi è una salvezza

 

Il peggior modo di dirsi addio? Non dirselo in tempo.
Per molti la fine di un amore è un dramma.
Ho visto storie di ogni genere, nel mio studio. Donne disperate, figli smarriti, uomini in lacrime. Perché non è vero che d’amore non si muore. D’amore si può morire eccome: purtroppo si uccide per amore e ci si può anche uccidere per lo stesso motivo. Ma si può morire anche restando vivi e, forse, questa è la condanna peggiore.
La notizia buona è che c’è sempre una scelta. Le cose succedono e il dolore è inevitabile. Ma la sofferenza non lo è.

Quando finisce un matrimonio, non finisce solo un rapporto di coppia. Naufraga il più importante progetto di vita e l’ “investimento” di anni e anni in una storia d’amore.
Ci sono, seppure nella diversità delle storie che di volta in volta arrivano nel mio studio, delle continuità che accomunano le separazioni.
Intanto, a prescindere dal fatto che la separazione poi si risolverà in consensuale o meno, ci sarà sempre chi ha deciso e chi la decisione la subisce. Anche se a quella decisione si è arrivati insieme. C’è sempre chi si addossa il fardello di responsabilità, anche morali, che una scelta del genere comporta.
C’è poi la disperazione che, spesso, si trasforma in odio. Va da sé che accettare la fine del proprio matrimonio sia un’impresa tutt’altro che semplice. Ma, nella quasi totalità delle situazioni, il lasciarsi ha come conseguenza uno strascico di vendette e rinfacci vari.
Gli anglosassoni sono soliti fare delle feste in occasione del loro divorzio, con tanto di bomboniere, catering, musica e inviti agli amici di sempre. Sembra un paradosso, eppure è un modo differente di affrontare il dolore. Il fatto è che spesso, noi italiani, non siamo in grado di esorcizzarlo questo dolore. Diventa quasi un alibi dietro al quale nascondiamo paure ed insicurezze. Paure che, poi, cedono il passo al rinnegamento di ciò che è stato. Fotografie strappate, come se bastasse stracciare un pezzo di carta per disintegrare anni di felicità insieme. Io credo che non si debba mai macchiare il libro della nostra vita. Bisognerebbe farlo per amore innanzitutto verso noi stessi, oltre che per i figli, se ci sono.
D’altra parte, quando un amore finisce non c’è più nulla da fare: si può continuare a vivere insieme ma se mancano la stima, il rispetto, se addirittura si è innamorati di un’altra persona, ricomporre il puzzle non solo è complicato, ma addirittura deleterio per entrambi.
Dovremmo imparare a capire quando è finita senza farci del male ed evitare di arrivare alla fine del rapporto affogando nel disprezzo o, peggio, nell’indifferenza. E, se ci sono figli, bisognerebbe capire che trattare male il coniuge o parlarne male davanti a loro, produce un grande dolore e si rischia di fornire un modello negativo. Questo sì, davvero, sarebbe il fallimento della famiglia e dei valori che ne sono alla base.

Perché, a volte, lasciarsi, è una salvezza: è l’inizio del secondo tempo della nostra vita, il più grande atto d’amore verso se stessi. In realtà servirebbe una cultura sociale differente, che aiutasse a capire che divorziare non significa aver fallito e che essere stati lasciati non necessariamente deve portare alla vendetta. E’ chiaro che ci sono situazioni drammatiche, che conoscono altre dinamiche e altri iter, che lacerano vite e rispetto alle quali si deve reagire con fermezza. Ma, nel caso di separazioni consensuali, lasciarsi con dignità dovrebbe essere un dovere di ciascuno. C’è il dolore, certo. Ma è proprio in quel momento che è necessario reagire. La nostra nuova vita è proprio davanti a noi, pronta per essere vissuta.

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